Anteprima Melodia Vincolante

CAPITOLO 1

Scintille a prima vista

«Gemma sei bellissima!» Dalia le saltellava attorno come un cagnolino «Lo sapevo! La divisa della scuola ti sta d’incanto!»
Era così agitata ed entusiasta che Gemma cercò di non deluderla. La camicetta bianca e la gonna grigia non erano poi un granché, ma... sì, certo, le calzavano a pennello, forse un po’ troppo. La camicia le cadeva sui fianchi mettendo in bella mostra le sue forme aggraziate e... lei si sentiva in grande imbarazzo.
Gemma sapeva di essere bella; tutti glielo ripetevano in continuazione. Era alta, snella ma con forme armoniose, aveva lunghi capelli biondo scuro e gli occhi, i suoi grandi e luminosi occhi verdi; quelli le erano stati decantati da quando era piccola.
Dalia l’aveva convinta a lasciare sciolti i capelli, che le arrivavano a metà schiena. Lei li teneva sempre raccolti in una treccia stretta e severa anche se, da quando aveva compiuto dodici anni, talvolta si concedeva uno chignon che la faceva sembrare più grande. I capelli sciolti erano disordinati, così le avevano insegnato. Dalia glieli aveva fermati appena ai lati con due forcine.
Gemma sorrise forzatamente alla cara amica, ma, non appena Dalia si voltò, emise un silenzioso sospiro di frustrazione.
Odiava essere bella. Certo, poteva sembrare assurdo; chi mai non avrebbe voluto essere bella e ammirata da tutti?
Beh, proprio lei: Gemma Silvestri.
Sua madre, fin da quando lei potesse ricordare, le aveva sempre ripetuto: “Essere belle è una maledizione” e “La bellezza è la virtù del demonio.” In casa sua non c’erano specchi, se non uno molto piccolo in bagno, che serviva solo per controllarsi dopo aver lavato i denti.
Invece lì ad Armonia, nella sua nuova cameretta, ce n’era uno bello grande in cui si poteva vedere interamente la propria immagine riflessa.
Gemma si voltò di scatto, non voleva guardarsi più; non doveva guardarsi più.
«Devi smetterla di pensare a tua madre» la rimproverò dolcemente l’amica. Lei sapeva.
Dalia Orchestri era la sua migliore amica. Abitavano nella stessa via, si conoscevano da sempre, ma non sarebbero potute esistere due persone più diverse fra loro. Gemma era molto seria e assennata, Dalia una pazzerella; una che non sapeva mai tenere la bocca chiusa e che aveva poca considerazione per le regole. Anche fisicamente erano molto differenti, perché Dalia era bassina e molto magra, aveva gli occhi azzurri e il volto pieno di lentiggini, il tutto sovrastato da una folta capigliatura rosso acceso. Le loro compagne delle medie, per prenderla in giro la chiamavano “il fiammifero” anche perché prendeva “fuoco” per un nonnulla.
Gemma, però, l’adorava. Era riuscita a non andare fuori di testa, per tutte le imposizioni disciplinari e morali che le inculcava sua madre, solo per merito dell’amica. Senza contare, poi, che solo grazie all’intercessione del signor Orchestri era riuscita a convincere i suoi genitori a iscriverla ad Armonia, la scuola di Musicomagia frequentata da suo padre.
Da quando era piccola, lui le raccontava di quel luogo magico; lei aveva sempre sognato di andarvi e, finalmente, adesso era proprio là.
Lontana dal controllo soffocante di sua madre.

«Ge, guarda!» Dalia la richiamò alla finestra.
L’attenzione di Gemma fu subito catturata dal grande Lago Sussurrante, che si estendeva immenso e suggestivo tra le colline boscose.
«Da qui si vede il terrazzo dei ragazzi!» continuò Dalia. Si voltò verso Gemma stringendole le mani entusiasta. Gemma le sorrise condiscendente: a lei non interessavano i ragazzi. Non che ne avesse frequentati poi molti. Tranne un paio di cugini e Umberto, il vicino di casa. A scuola ovviamente erano tutte ragazze.
«Ti rendi conto?» continuò Dalia. «Da qui possiamo vederli!»
A Gemma non pareva una bella cosa. «Quindi anche loro possono vederci?» dedusse preoccupata.
Dalia scosse la tesata. «Solo se usciamo» le spiegò «tra i nostri alloggi e i loro ci sono quelli degli insegnanti.»
Per fortuna, pensò Gemma.
Ai pasti avrebbero condiviso la Sala Comune, ma ci sarebbero stati un confine invisibile e lo sguardo implacabile degli insegnanti, a separare le due ali della mensa; le raccontò ancora Dalia mentre continuava a guardare fuori. «Mia madre mi ha detto che l’unico luogo di incontro è il prato grande.»
Gemma aveva notato la vasta distesa erbosa che si estendeva davanti alla Sala Comune verso le stalle e il magnifico roseto, non vedeva l’ora di fare una bella passeggiata.
«E poi c’è il campo sportivo.» Sorrise raggiante Dalia. «Potremo andare a vedere gli allenamenti di Tornado!»
Il padre di Gemma faceva parte della squadra e lei sapeva tutto di quello strano sport.
«Credo che sia un po’ troppo violento.»
«Ma no» la contraddisse Dalia. «Tu immagina aitanti giovanotti che sfrecciano sui pattini» sospirò «in tenuta da allenamento...»
«Mentre con il flauto guidano una sfera incantata, sì lo so come funziona» disse Gemma esasperata. «Solo non capisco cosa ci sia di bello da vedere.»
«I ragazzi, Gemma» rispose saccente Dalia «I ragazzi.»
Gemma sorrise divertita e si arrese. Non sarebbe riuscita a smorzare in nessun modo l’entusiasmo della sua cara amica.
Mentre Dalia si sporgeva, con il rischio di finire fuori a gambe all’aria e di fare una delle sue figuracce, Gemma si era inginocchiata accanto al suo nuovo letto. Appoggiata sulla morbida coperta patchwork, c’era la borsa porta uovo con dentro il suo inestimabile tesoro. Il suo nuovo, futuro animusi.
Gemma sorrise e accarezzò la superficie calda e liscia dell’uovo.
«Spero tanto che sia una gattufo femmina» disse piano, quasi tra sé. Sua madre le aveva insegnato che non bisognava mai esprimere desideri. “Sono sciocche superstizioni” diceva “Devi solo pregare e soltanto per le cose veramente importanti!”
Ma adesso lei non c’era e Gemma aveva l’impressione che il pesante macigno sul cuore, con cui aveva imparato a convivere da quando era piccola, si stesse lentamente sollevando.
Avrebbe potuto assaporare la libertà di essere veramente se stessa?

Poco più tardi, Gemma e Dalia stavano passeggiando nel prato grande costeggiando il roseto. Suo padre, il signor Silvestri, le aveva trasmesso una grande passione per i fiori. A casa loro, aveva convinto la madre di Gemma a dedicare una piccola parte del pratico e prezioso orto alla coltivazione dei fiori.
“Non si mangiano i fiori” diceva la donna, concreta e austera.
Il signor Silvestri rispondeva dolcemente guardando la sua adorata figliola: “Anche l’anima ha bisogno di nutrimento, tesoro.” Gemma sorrise, suo padre era meraviglioso.
C’erano molti altri studenti attorno a loro, tutti in camicia bianca, tutti del primo anno. Quelli più anziani avrebbero cominciato ad arrivare il giorno successivo.
Quando Gemma vide giungere da lontano due giovanotti con la camicia verde chiaro del terzo anno, si agitò non poco.
Subito si voltò verso le rose per assaporarne l’aroma e cercò di attirare l’attenzione di Dalia, prima che l’amica facesse qualche assurdità.
«Senti che profumo» le fece notare.
«Due boccioli tra le rose» l’accarezzò una suadente voce maschile e Gemma sentì il cuore accelerare.
«Ciao, io sono Dalia e lei è la mia amica Gemma, siamo del primo anno.»
Nel tempo che Gemma impiegò per voltarsi, l’amica aveva già rotto il ghiaccio e fatto le presentazioni.
«Certo, due camicie immacolate, due anime innocenti. Primo anno, come non riconoscervi.»
La sua attenzione fu subito catturata dal giovane che stava parlando e, dal tono caldo e dolce, lei capì chiaramente che era lo stesso che aveva parlato poco prima.
Aveva i capelli neri pettinati con la riga da una parte. Gli occhi scuri, e incredibilmente profondi, la tennero incatenata al suo sguardo, mentre le labbra grandi e morbide si esibivano in un adorabile sorriso storto.
Gemma fu sicura di arrossire, non era abituata a parlare con i ragazzi. Specie con uno più grande, uno che la fissava in quel modo sfacciato.
Senza che lei se ne rendesse conto, il bel moro le afferrò la mano e le posò un bacio galante. «Vincenzo Leoni, per servirvi» si inchinò, in un’ossequiosa riverenza.
Tutto senza staccare lo sguardo dal suo.
Gemma si sentiva in fiamme. Deglutì a fatica e accennò un sorriso.
Il giovane Vincenzo Leoni non le aveva ancora lasciato la mano e sembrava sul punto di aggiungere qualcosa, quando qualcuno al suo fianco si schiarì la voce.
Gemma tornò in possesso della propria mano e la posò sul cuore impazzito, cercando di calmarne i battiti. Nessuno le aveva mai fatto un baciamano.
Vincenzo si allontanò appena e insinuò un braccio dietro alla persona lì accanto. Solo in quel momento Gemma lo guardò.
Era un giovane alto e robusto, i suoi capelli castani erano lunghi e spettinati, come quelli di un brigante o un pirata, non di certo un gentiluomo. Guardava l’amico con una certa dose d’insofferenza, il viso serio, le sopracciglia appena aggrottate.
«E questo» stava dicendo intanto Leoni «è il mio scorbutico amico, Rodolfo Accordi.»
Accordi? Gemma era sicura di aver già sentito quel cognome, forse gliene aveva parlato suo padre.
«Lui non vi farà il baciamano, lui non è al vostro servizio, lui è il nostro eroe e non ha tempo per essere gentile; quindi, per qualsiasi richiesta, rivolgetevi a me.»
«Smettila di fare il buffone» la voce di Rodolfo era forte e decisa, molto meno dolce e carezzevole «e lascia decidere a me cosa farò e cosa non farò.»
In quel momento alzò lo sguardo su di lei. Gemma sussultò, vide i suoi penetranti occhi azzurri guizzare, come se avessero preso fuoco; ebbe paura di quel giovane, anche se ne fu contemporaneamente incuriosita.
Cosa intendeva Leoni dicendo “il nostro eroe”?
Gemma era rimasta lì imbambolata, con gli occhi, e probabilmente anche la bocca, spalancati. Non riusciva a parlare.
«Ora dobbiamo andare» disse secco Rodolfo Accordi «con permesso.» Detto ciò si allontanò tirandosi dietro l’amico, che le stava ancora rivolgendo uno splendido sorriso storto.
Appena furono poco lontani, Gemma sospirò e si rese conto che doveva aver trattenuto il respiro per quasi tutto il tempo. Fu travolta da un abbraccio di Dalia, che emise un gridolino di gioia.
«Abbiamo appena conosciuto due ragazzi del terzo anno!!» Quasi la strozzò, poi allentò la stretta e riprese a saltellare tenendole le mani. «Hai visto com’erano affascinanti?» Si voltò ancora verso i due giovani, che stavano entrando nella struttura delle stalle.
«Questa avventura comincia proprio bene, non trovi?»
Gemma non rispose, era rimasta molto turbata da quell’incontro, sia dall’impetuosa invadenza di Vincenzo Leoni, che dalla scontrosa indifferenza di Rodolfo Accordi.
Scosse la testa e si sedette a terra sul prato, si sentiva le gambe molli.

Il giorno seguente, subito dopo colazione, cominciavano le lezioni per i ragazzi del primo anno.
«Cura degli Animusi» lesse Dalia sul loro piano di studi, mentre si dirigevano verso le stalle.
Non avevano più visto i due giovani del terzo anno, né a cena né alla danza mattutina; non che a Gemma importasse, a lei non interessavano i ragazzi.
Appena svegli, studenti e professori si riunivano sul prato grande per un momento di incontro, una breve danza di gruppo, una sorta di preghiera. Avevano intonato un benvenuto al giorno: la professoressa Loredana Austeri aveva insegnato loro una breve melodia da suonare con i flauti, per accompagnare i movimenti e le parole.
A Gemma era parso come un rito pagano. Sua mamma ne sarebbe stata indignata, ma a lei era piaciuto molto e aveva percepito una grande sintonia con la natura e con le persone attorno a lei.
«Da questa parte!» Un signore calvo e di bassa statura si stava sbracciando all’entrata delle stalle. «Venite, ragazze!»
Quando tutte le studentesse si furono radunate all’interno di una grande stanza, l’uomo cominciò a parlare «Buongiorno signorine, io sono Gianfranco Fedeli, professore di “Cura degli Animusi”. Nelle mie lezioni imparerete tutto quello che dovete sapere su queste splendide e dolcissime creature.»
Gemma pensò che fosse strano avere un professore uomo; fino a quel momento aveva avuto solo insegnanti donne. Beh, lì ad Armonia l’aspettava il compito spaventoso di entrare in contatto con l’altra metà del mondo: il misterioso e, per lei sconosciuto, mondo maschile.
Il professore, però, era molto simpatico, non la mise in imbarazzo; dopo un paio di minuti le pareva di averlo sempre conosciuto, come fosse un suo familiare.
Spiegò loro che esistevano tre tipi di animusi da compagnia: i topogalli, i gattufi e i canorsi.
«Dal vostro uovo uscirà una di queste docili creature e voi dovrete prendervene cura per tutta la vita.»
Gemma sorrise entusiasta, suo padre aveva avuto un canorso che poi era stato magicamente trasformato in Tommy, il loro amato cagnolino di casa.
Le studentesse vennero divise in gruppi e condotte in tre stanze diverse.
«Dovrete suonare per i piccoli animusi da compagnia» spiegò il professore. «Si sono appena svegliati dal letargo. Alla fine dell’anno scolastico tutti gli studenti lasciano qui a scuola i loro piccoli amici, in un sonno ristoratore che è necessario per il loro particolare metabolismo, visto che si nutrono solo di musica.»
Gemma si ritrovò in gruppo con Dalia e con le due ragazze che dividevano la stanza accanto alla loro: Raffaella e Teresa. La prima era alta, portava gli occhiali e aveva lunghi capelli castani, mentre la seconda era molto bella e aveva tratti mediterranei, con profondi occhi neri.
Entrarono in una piccola stanza dove c’erano tantissimi gattufo. Gemma trattenne il fiato entusiasta. Erano dei gatti a tutti gli effetti, ma avevano gli occhi più grandi, e gialli come tutti gli animusi. Essendo l’unione magica tra un gatto e un gufo, possedevano artigli da rapace nelle zampe anteriori e piccole ali ripiegate sul dorso. Il pelo, mischiato a un fine piumaggio, era di colore nero; solo alcuni avevano la punta della coda bianca: erano le femmine, glielo aveva spiegato suo papà.
Le si avvicinò una piccola gattufo, tenendo la coda dritta, e si strusciò contro le sue gambe. Subito Gemma si sedette sui talloni e cominciò a farle le coccole, era morbidissima!
«C’è una cosa che gli animusi gradiscono più delle carezze» le sussurrò una voce bassa, molto vicina al suo viso.
Gemma sobbalzò e si scostò appena. Si portò le mani al cuore, che stava galoppando spaventato.
Aveva riconosciuto quella voce, era Vincenzo Leoni. Si era inginocchiato dietro di lei, aveva cominciato ad accarezzare un altro gattufo e sorrideva divertito.
Gemma non riusciva a parlare, era indispettita dallo spavento che lui le aveva fatto prendere e poi, perché doveva sempre avvicinarsi in quel modo? Si conoscevano appena!
«Ti ho spaventata?» Si era spostato di fianco per guardarla negli occhi.
Gemma abbassò lo sguardo e annuì.
«Scusami, pensavo mi avessi visto arrivare» alzò le spalle. «Il professor Fedeli mi ha appena presentato alla classe» le fece notare.
Oh. Lei non se n’era nemmeno accorta.
Fece un respiro profondo e riprese ad accarezzare l’animusi, non voleva fargli capire di essere in difficoltà. «Allora?» gli chiese con un filo di voce «Cosa amano più delle carezze?»
Leoni tirò fuori il flauto. «La musica!»
Certo, lo sapeva anche lei, ma in quel momento non ci aveva pensato; le riusciva molto difficile pensare con qualcuno che le stava così appiccicato e la guardava in modo tanto sfacciato.
«Sembrerebbe quasi che tu non sia abituata a stare accanto a un giovanotto.» Ovviamente il ragazzo se n’era accorto e aveva pensato bene di farglielo notare. «Almeno non a uno affascinante come me.»
Gemma si sentì le guance in fiamme, avrebbe voluto rispondere a tono dicendo a quel ragazzo impertinente che era colpa sua e del suo comportamento, ma lei era una persona buona e gentile e prima di criticare gli altri guardava sempre se stessa. E in fondo Vincenzo Leoni aveva ragione: lei non era abituata a stare accanto a un ragazzo.
«È così» ammise piano.
Inaspettatamente Vincenzo la guardò serio e le prese di nuovo la mano gelata tra le sue, grandi, calde e accoglienti. L’impertinenza e l’arroganza di poco prima erano svanite. La stava guardando con molta dolcezza.
Accennò appena il suo sorriso storto. «Bisognerà che ti abitui, mio piccolo bocciolo di rosa» le sollevò la mano e vi depose un morbido bacio «non credo sia possibile per me riuscire a starti troppo lontano.» Sollevò le sopracciglia e fece un’espressione buffa.
Gemma, nonostante il grande imbarazzo e l’assordante batticuore, non poté fare a meno di lasciarsi sfuggire un sorriso.

Dopo pranzo le quattro ragazze si appoggiarono a un albero dal grande tronco, a chiacchierare e a prendere il sole. A tavola non era permesso discorrere più del dovuto, solo brevi scambi di frasi inerenti al pasto. Non era educato parlare con la bocca piena, né distrarre i commensali con chiacchiere di alcun genere.
Si erano sedute sul prato. Dopo aver tirato fuori le uova dalla borsa e averle posate delicatamente sull’erba, avevano suonato a lungo per loro. Cominciarono a conversare a proposito della scuola e delle nuove materie che avevano studiato quella mattina.
«Io ho apprezzato molto la professoressa Loredana Austeri, l’insegnante di Storia della Musicomagia» disse subito Gemma. Quella donna le era parsa forte e intelligente, una donna molto sicura di sé; da grande avrebbe voluto diventare proprio come lei.
«Peccato che abbiamo saltato la lezione di Musicomagia Domestica, ero molto curiosa» disse ancora Gemma.
I discorsi, ben presto, verterono inevitabilmente sui due giovani in camicia verde che avevano partecipato alla loro prima lezione, quale fosse il più bello e il più “a modo”.
«Vincenzo Leoni è molto affascinante e anche molto galante» cominciò Teresa.
Solo a sentire il suo nome, Gemma arrossì.
«Mi spiace, care amiche, ma credo che il suo cuore batta già per la nostra cara Gemma.» Dalia ovviamente raccontò loro dell’incontro del pomeriggio precedente.
Le ragazze la guardarono con un pizzico di invidia. «E a te piace, Gemma?» chiese Raffaella con falsa innocenza.
Gemma sentì le guance andarle a fuoco, scosse la testa. «Non lo so!» Si coprì il volto con le mani. «Lo conosco appena e poi... È così...»
«Così come?» la incalzò Teresa.
«Così bello? Affascinante? Galante?» le suggerì Dalia.
Gemma sospirò esasperata e confusa. «No, intendevo così impertinente!» sbuffò.
Detto questo si alzò e andò a sedersi dall’altra parte del grande albero, all’ombra. Il sole, sommato all’imbarazzo, avevano reso la temperatura fastidiosa.
Anche le sue amiche la seguirono poco dopo.
«Abbiamo lasciato le uova sul prato» si ricordò Gemma, e fece per alzarsi e andare a recuperarle.
«Dai, le prendiamo dopo» la tranquillizzarono le altre. «Intanto sono uova, non scappano!»
Ridacchiarono e si sdraiarono all’ombra del grande albero.

Gemma si addormentò, fu svegliata da una voce alterata. Era una voce maschile, ma non riuscì a identificarla, né a capire cosa stesse dicendo.
Si tirò su a sedere e si guardò attorno confusa, ma non vide nessuno, improvvisamente le vennero in mente le uova e si alzò in fretta.
Aggirò il grande tronco e...
«Le uova!» continuò a guardarsi in giro smarrita. «Non ci sono più!»
Subito tutte le ragazze si alzarono e si mossero agitate.
Gemma si portò una mano al cuore. Provò un grande dolore, un terribile senso di colpa. Il suo piccolo amico, non avrebbe dovuto lasciarlo incustodito! Era stata una sciocca e irresponsabile! Sentì le lacrime salirle agli occhi, ma le cacciò indietro. Non potevano essere sparite.
«Dividiamoci!» disse alle amiche. «Qualcuno le avrà prese!»
Si diresse subito alle stalle; il suo primo pensiero fu di avvisare il professor Gianfranco.
Accelerò ed entrò di corsa chiamandolo «Professor Fedeli!» Dentro era tutto buio, non si vedeva bene, ma lei sapeva che il professore doveva essere lì da qualche parte. Mentre si avvicinava aveva sentito delle voci. «Le nostre uova sono sparite!»
«Dunque sono le vostre!» Una voce aggressiva la investì, non era il professore.
Gemma sbatté le palpebre e si trovò di fronte Rodolfo Accordi, il giovane del terzo anno. I suoi occhi azzurri la stavano fissando carichi di malcelato rimprovero. «Come vi è saltato in mente di lasciare le vostre uova incustodite?» Avanzò ancora verso di lei guardandola dall’alto in basso.
Gemma si trovò ad arretrare intimorita, prese fiato per parlare, ma il giovane non gliene diede modo. Sollevò una mano e Gemma per un attimo temette quasi che volesse colpirla, invece Rodolfo strinse forte il pugno davanti a sé e se lo portò al petto, parlò in tono accorato, con sofferenza. «Sono fragili creature viventi, non sono bambole di pezza per bambine!»
Per Gemma fu molto peggio di aver ricevuto uno schiaffo.
Deglutì, sentiva le lacrime pungerle gli occhi, ma il giovane aveva ragione; si erano comportate davvero male.
Si inginocchiò a terra per recuperare il suo uovo, intanto le sue amiche erano arrivate, attirate dai toni accesi del rimprovero di Rodolfo.
Loro non si fecero intimidire, raccolsero il loro uovo e lo rimisero nella borsa.
«Rodolfo!» Da una stanza delle stalle arrivò anche Vincenzo Leoni, che subito si precipitò verso di lei. «Non avrai inveito con quel tono proprio contro queste deliziose fanciulle, vero?»
Ci fu un momento di imbarazzato silenzio, poi Rodolfo parlò, ma in tono molto più pacato. «Le uova di animusi vanno tenute sempre con sé e non vanno lasciate di certo al sole» disse lapidario.
Gemma vide i suoi piedi fare dietro front e allontanarsi.
«Forse le ragazze non lo sapevano» cercò di giustificarle Vincenzo in tono conciliante.
Gemma gli appoggiò una mano sul braccio per interromperlo e scosse la testa. «Ha ragione» disse con la voce incrinata dalla tensione. Lo guardò appena, poi distolse lo sguardo, si voltò e corse via.
Stava per crollare e non voleva farsi vedere da nessuno.
Sua madre non voleva mai vederla piangere, le aveva insegnato che era una vergogna farsi vedere deboli.
Andò a rintanarsi in camera sua.

Le lezioni del pomeriggio si susseguirono veloci, Gemma non riuscì a concentrarsi a sufficienza, era imbronciata e pensierosa, decisamente di cattivo umore.

Quando scesero per cena Gemma camminava a testa bassa, si sentiva ancora in difficoltà. «Accordi e Leoni ti stanno guardando» le disse piano Dalia.
Gemma non alzò gli occhi e si sedette al suo posto; per tutto il resto della giornata non aveva incontrato nessuno dei ragazzi. Durante l’ora pomeridiana di “Cura degli Animusi” il professore non aveva detto loro nulla, perciò nessuno gli aveva riferito il comportamento riprovevole delle ragazze.
La Sala Comune era piena; erano ormai arrivati tutti gli studenti e la professoressa Loredana Austeri prese la parola, annunciando l’arrivo della preside Yamanuelle Abuja.
Tutti i colli si allungarono. Gemma aveva sentito già parlare di lei, era straniera ed era un Musimago molto potente, si diceva che avesse avuto una vita travagliata e che fosse stata una ragazza madre.
La donna sfilò tra i tavoli con grazia, per nulla turbata dagli sguardi curiosi degli studenti.
Non era molto alta, ma si muoveva con l’agilità di una danzatrice. Aveva lunghi capelli castani che portava intrecciati in un’elaborata acconciatura. Si fermò al tavolo dei professori e accarezzò con lo sguardo tutti i presenti. I suoi occhi erano azzurri e molto penetranti; Gemma si sentì messa a nudo da quello sguardo ed ebbe l’impressione che si soffermasse un po’ più a lungo proprio su di lei.
«Buonasera a tutti, e benvenuti.» Anche la voce trasudava sicurezza e forza. «Come tutti gli anni, la prossima domenica festeggeremo la Festa di Primavera, per celebrare questo prezioso periodo di rinascita e l’inizio del nuovo anno scolastico.»
La sala si riempì di mormorii e risatine sommesse; l’entusiasmo divenne palpabile.
Gemma non sorrise e non mangiò molto, si sentiva ancora turbata per gli avvenimenti del pomeriggio. Le altre ragazze non avevano accusato il colpo quanto lei; a dire il vero erano molto eccitate per la festa e sembravano aver dimenticato l’accaduto; d’altra parte loro non erano state riprese in tono tanto aggressivo da nessuno. Gemma si sentiva in difetto e il fatto che il professore non sapesse nulla, contribuiva ad alimentare il suo senso di colpa.
Rimuginò per tutta la cena. Quando si alzarono da tavola, Gemma ormai era decisa ad andare a parlargli. Ovviamente non avrebbe detto nulla riguardo le compagne, ma lei non poteva andare a dormire con quel peso sul cuore.
«Gemma, andiamo a fare due passi? Dai, così parliamo della festa» le disse Dalia entusiasta.
«Vi raggiungo dopo, devo chiedere una cosa al professor Fedeli» rispose.
Dalia la guardò stranita, ma annuì, seguendo le altre.
Gemma attese accanto all’uscita che il professore si avvicinasse. Leoni e Accordi la stavano guardando, sembravano intenzionati ad avvicinarsi, ma per sua fortuna il professore la raggiunse per primo.
«Buonasera, signorina Silvestri» le sorrise cordiale.
«Buonasera, professore» disse piano «se non è un disturbo per lei, vorrei parlarle un attimo.»
Si allontanarono verso il lago. Gemma raccontò ogni cosa e si liberò l’animo dal peso che lo opprimeva. Soprattutto voleva essere rassicurata sulla salute del suo animusi.
Il professore rimase un po’ in silenzio, poi sorrise mettendole le mani sulle spalle. «Gli errori che commettiamo ci devono servire per imparare a essere persone migliori» le disse dolcemente «non temere: un po’ di sole non ha mai fatto male a nessuno» le sorrise «e tu sei stata ammirevole, coscienziosa e molto corretta a raccontarmi tutto, lo apprezzo davvero.»
Gemma abbassò lo sguardo imbarazzata.
«Il nostro caro Rodolfo» continuò il professore «ha molto a cuore gli animusi e crede che alcuni studenti non se ne prendano cura nel modo giusto» le spiegò, probabilmente per giustificare la reazione di Accordi. «Non giudicarlo male, è un bravo ragazzo, sono sicuro che andrete d’accordo.»
Gemma annuì e ringraziò il professore. Si allontanò e si sentì turbata all’idea di poter diventare amica di quel ragazzo così serio e intollerante.
Si avviò svelta sul retro dell’edificio. Non c’era nessuno e il cielo si era fatto scuro. Solo la pallida luna verdina si distingueva appena. Accelerò per raggiungere la scalinata che conduceva alle camerate, non era conveniente per una ragazza andarsene in giro tutta sola, soprattutto la sera.
«Gemma, aspetta!» la voce di Leoni la raggiunse da lontano.
Oh no, non se la sentiva proprio di affrontarlo, da sola e al buio. Fece finta di non averlo sentito e si infilò svelta nel corridoio dell’ala ovest, dove l’ingresso ai giovanotti era severamente proibito.

 

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